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Radicali Firenze

Associazione per l'iniziativa radicale Andrea Tamburi

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In ricordo di Andrea

Un ricordo di Andrea Tamburi

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Cos’hai provato, Andrea, quella notte a Mosca quando i primi colpi di spranga si sono abbattuti su di te, quando sei caduto e quelli hanno continuato a colpirti, quando hai sentito in bocca il sapore del sangue e della terra, di una terra così lontana e di­versa dalla tua?

Ed in quei giorni, in quei tre giorni che tutti ti cerca­vano ed eri scomparso, perduto in un letto d’ospedale abbandonato, senza che nessuno ti cu­rasse mentre cominciavi a capire che forse era dav­vero la fine: a che pensavi, chi pensavi?

Vorrei tanto che tu potessi dirmelo, Andrea, e im­magino il tuo viso sorridente e tu seduto con noi alla pizzeria, che ci spieghi con le parole semplici e pre­cise che eri solito usare cosa vuol dire morire am­mazzato.

Io me la ricordo la prima volta che ci siamo visti: era un’estate, forse l’ottantuno o l’ottantadue, e tu stavi a raccogliere firme ed a megafonare ad un tavolo del Partito Radicale, avevi i pantaloncini corti perché era caldo, e se è caldo è giusto stare meno vestiti.

E’ questo che ti ha distinto subito: la logica e la semplicità di pensiero, la praticità e la schiettezza, perché se c’è qualcosa da fare la si fa, subito e per la via più diritta .

Credo che fossimo più o meno coetanei, ma già dai primi giorni ti ho pensato come l’amico confidente, il padre a cui chiedere un consiglio, la spalla a cui ap­poggiarsi se ce n’era bisogno o de­siderio.

Andammo in vacanze insieme quell’estate, ti ri­cordi?

La Sardegna col suo caldo ed il suo mare e noi lì a parlare e mangiare e tu che ti sbagliavi e chiedevi pane cannonau e vino carasau, noi che ci si sgana­sciava dalle risate e nostra figlia, allora bambina, che ti chiamava zio e giocava seduta sulle tue gambe, e poi il ritorno e tu che dicesti non ho più voglia di fare cose in cui non credo, mollo tutto e me ne vado a vivere in modo conforme alle mie idee, a fare quello che mi sembra giusto insieme a gente come me e come voi, senza perdere il tempo in un lavoro e in una vita che non mi danno più niente.

E lo facesti davvero: svendesti la ditta e la casa, salu­tasti tua madre e tuo fratello e noi amici e partisti per Roma dopo aver fatto terra bruciata alle tue spalle, dopo esserti tolto quasi ogni possibilità di ritorno, perché era quello che dovevi fare.

Io non venni alla stazione a salutarti, perché forse non ci fu nessun saluto alla stazione e nessuna ceri­monia; te ne andasti un giorno in silenzio e senza voltarti indietro, ma non ti dimenticai.

Mi raccontava di te chi ti aveva visto a Roma, ed ogni tanto apparivi in televisione o ti sentivo per ra­dio; sapevi parlare al telefono in inglese, mi dice­vano, tu che ti vantavi di aver fatto appena la se­conda ‘avviamento’.

E soprattutto mi dicevano che eri un punto di riferi­mento là come lo eri stato tra noi, e che eri quel punto di riferimento di cui c’era sempre stato biso­gno, e che nei momenti di sfiducia e di stanchezza c’eri sempre tu, che ricordavi agli altri quanto fosse importante essere lì insieme, e combattere, e non darsi mai per vinti.

E poi la Russia, la tua partenza, la tua responsabilità per organizzare là un partito, tu da solo contro quel­l’immenso colosso, tu che dovevi riunire, fondare, aggregare e quindi  parlare, cercare, propagan­dare.

Però ce l’avevi fatta, e noi si diceva ma pensa Andrea, ma chi l’avrebbe detto etc. etc.

Ed una sera alla radio la notizia, e noi che ci siamo guardati e non ci credevamo, non può essere, ed ab­biamo alla fine telefonato a Roma e ci hanno detto sì, Andrea l’hanno ammazzato a Mosca e non si sa chi e perché, né come: quello che si è saputo è che sei rimasto tre giorni ricoverato in un ospedale, dopo il pestaggio, ma nessuno ha detto a chi ti cercava che tu eri lì, e alla fine non ce l’hai fatta, da solo.

Avevi una ragazza che ci ha raccontato quanto tu fossi abituato a dire e a cercare la verità e a preten­dere la giustizia per te e per chi ti stava vicino, e che ci ha detto anche che in Russia, oggi, è troppo pre­sto, che non c’è ancora posto per persone come te.

Però sei morto come dovevi, Andrea, forse come avresti voluto se tu avessi potuto scegliere, sei morto mentre facevi quello in cui credevi e per quello in cui credevi, sei morto perché non sono riusciti a piegare la tua nonviolenza e la tua fortissima dol­cezza: hanno dovuto spezzarti ma sei stato tu a vin­cere, anche loro lo sanno.

Ed io spero che negli ultimi momenti tu pensassi a questo, spero che tu non abbia rimpianto nulla, spero che tu abbia veramente capito l’importanza di ciò che stavi facendo, di ciò per cui stavi morendo.

Non c’ero al tuo funerale e non so nemmeno dove tu sia seppellito, perché so che non verrò mai coi fiori sulla tua tomba: però ti penso spesso, e porto dentro una piccola parte di te, questo ricordarti con tanto af­fetto e tanta nostalgia, e credo che il ricordo che si lascia negli altri quando non ci siamo più sia in fondo l’unica cosa che realmente ci sopravvive: è forse questo quello che alcuni chiamano anima.

E la tua è veramente grande.

Emilio Francini Naldi

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